TRIBUNALE DI FIRENZE 
                       Seconda Sezione Penale 
                          rito monocratico 
                        dott. Marco Bouchard 
 
    All'esito dell'istruttoria svolta nel presente procedimento tutte
le parti hanno chiesto il proscioglimento dell'imputato C. i  E.  per
incapacita' di intendere e di volere al momento del fatto  per  vizio
totale di mente; 
    La parte civile ha chiesto che a favore della persona danneggiata
dal reato fosse riconosciuto un equo indennizzo  ai  sensi  dell'art.
2047 c.c.; 
    Il  giudice  rinviava  il   processo   per   eventuali   repliche
all'udienza del 15 gennaio 2015; 
    All'udienza odierna il giudice  -  dubitando  della  legittimita'
costituzionale  dell'art.  538  c.p.p.   -   sospende   il   presente
procedimento con trasmissione degli atti  alla  Corte  costituzionale
per le ragioni sotto illustrate. 
    A parte alcune osservazioni della difesa dell'imputato in  ordine
alla consapevolezza da parte del C.,  dell'ammonimento  notificatogli
dalle forze dell'ordine in data 6 settembre 2013 e alla volontarieta'
della condotta pregiudizievole in  danno  della  persona  offesa,  e'
pacifico che  il  C.,  al  momento  del  fatto,  per  la  particolare
patologia  di  cui  e'  affetto,  dovesse  considerarsi  incapace  di
intendere e di volere. 
    Nonostante il chiaro dettato normativo  contenuto  nell'art.  538
c.p.p. che prevede una pronuncia del giudice penale sulla domanda per
le restituzioni e il risarcimento del  danno  a  condizione  che  nei
confronti dell'imputato sia  pronunciata  sentenza  di  condanna,  la
parte civile ha chiesto la condanna dell'imputato - anche in caso  di
assoluzione ex art. 88  c.p.  per  non  imputabilita'  del  C.  -  al
pagamento di un equo indennizzo ex art. 2047 c.c. 
    La parte  civile,  in  sostanza,  ritiene  superabile  il  tenore
letterale della norma sulla condanna per  la  responsabilita'  civile
(art. 538 c.p.p.) per le seguenti ragioni: 
        l'art. 185 c.p. prevede che il reato obbliga al  risarcimento
del danno cagionato dal fatto non solo  il  colpevole  ma  anche  «le
persone che, a norma delle leggi civili, debbono  rispondere  per  il
fatto altrui»; 
        nel caso del C. in mancanza di  qualsiasi  soggetto  preposto
alla  sua  custodia  o  sorveglianza,  l'espresso  riferimento   alla
disciplina  del  codice  civile  per  il   risarcimento   del   danno
permetterebbe  il  ricorso  alla  soluzione   sostitutiva   dell'equo
indennizzo da porre direttamente a carico dell'incapace, tenuto conto
delle condizioni economiche delle parti; 
        il tenore letterale dell'art. 538 c.p.p.  sarebbe  superabile
in ragione di  una  interpretazione  costituzionalmente  orientata  a
protezione dei diritti della persona offesa costituitasi parte civile
e  alle  aspettative  riposte  nella  definizione   contestuale   del
procedimento penale e della domanda risarcitoria (artt. 3, 24  e  111
Cost.). 
    La questione e' stata affrontata, anche recentemente, dalla Corte
di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 8 ottobre - 8  novembre  2013,
n. 45228, in un procedimento per un duplice omicidio premeditato  per
i quali l'imputato e' stato assolto per vizio totale di mente. 
    I giudici di  legittimita',  in  quella  occasione,  erano  stati
chiamati in causa a seguito delle decisioni di  merito,  di  primo  e
secondo grado, che avevano  riconosciuto  alla  parte  civile  l'equo
indennizzo previsto dall'art. 2047 c.c. 
    La Corte di Cassazione aveva subito lamentato come i  giudici  di
merito non si fossero confrontati con il  chiaro  disposto  dell'art.
538  c.p.p.  che  radica  una  competenza  funzionale  sulla  domanda
risarcitoria in sede penale solo nel caso di  condanna  dell'imputato
per i  fatti  oggetto  dell'azione  penale  esercitata  dal  pubblico
ministero. 
    Dal  dato  letterale   deriverebbe   pertanto   «che   la   parte
danneggiata, a fronte di assoluzione dell'imputato, non  abbia  altra
via che  quella  di  promuovere  azione  davanti  alla  giurisdizione
civile, giudice generale dei diritti». 
    Il  legislatore   avrebbe   previsto   un   chiaro   riparto   di
giurisdizione sulla domanda risarcitoria fondato sul  criterio  della
condanna penale dell'imputato contro il  quale  non  potrebbe  essere
invocato «il principio generale di  economia  processuale,  anche  in
funzione di un giusto e celere processo, per la  cessazione,  con  il
vigente  codice  di  procedura  penale,  del  pregresso  sistema   di
unitarieta' della funzione giurisdizionale e di  generale  prevalenza
dell'accertamento in sede penale (su tutto cio' si  veda  Cass.  Pen.
Sez. 4, n. 33178 in  data  28  giugno  2012,  dep.  23  agosto  2012,
Petrali, Rv. 253264 e l'ampia motivazione di Cass. Pen. S.U. n. 40049
in  data  20  maggio  2008,  Rv.  240814,  P.C.  in   proc.   Guerra,
opportunamente citata dalla precedente)». 
    Questo giudicante condivide pienamente l'impostazione dei giudici
della Suprema Corte che rinvengono nella disposizione  dell'art.  538
c.p.p.   una   dato   normativo   insuperabile   in   via   meramente
interpretativa,   neppure   nella   seducente    prospettiva    della
interpretazione costituzionalmente orientata. 
    Tuttavia non si puo' condividere  il  tentativo  dei  giudici  di
legittimita' di rinvenire nella proposizione contenuta nell'art.  538
c.p.p. la conferma di un principio processuale  secondo  cui  non  vi
potrebbe essere pronuncia sulla domanda risarcitoria  in  difetto  di
una  condanna   sostanziale   ad   una   pena   criminale   derivante
dall'accertamento della responsabilita' penale  dell'imputato.  Nella
prospettiva della sentenza citata tale principio  sarebbe  del  tutto
coerente con «la cessazione,  con  il  vigente  codice  di  procedura
penale,  del  pregresso  sistema  di   unitarieta'   della   funzione
giurisdizionale e di generale prevalenza  dell'accertamento  in  sede
penale»:  di  qui  il  riferimento,  che   questo   giudice   ritiene
inconferente con la sentenza delle SS.UU. del 20 maggio 2008 n. 40049
Rv. 240814. 
    Nel caso di specie, invece, la pretesa  della  parte  civile  non
auspica  affatto  un  ritorno  ai  principi  di   unitarieta'   della
giurisdizione fondata sulla primazia  del  giudicato  penale  poiche'
l'istanza di veder riconosciuta la pretesa risarcitoria  azionata  in
sede penale tende a fare  buon  governo  di  principi  costituzionali
posti a tutela anche della parte civile nel processo penale. 
    Questo  giudicante  ritiene  di  non  poter  superare   per   via
interpretativa l'ostacolo posto dall'art. 538 c.p.p. ma dubita  della
legittimita' costituzionale  dell'art.  538  c.p.p.  per  i  seguenti
motivi: 
        1) nella nuova dinamica dei  rapporti  tra  azione  civile  e
azione penale ispirata al favor separationis, ha osservato  la  Corte
costituzionale fin dalla pronuncia  n.  424/1998,  e'  lasciata  alla
persona danneggiata dal reato l'opzione tra chiedere  la  tutela  dei
propri diritti nella sede propria ovvero  nel  processo  penale.  Una
volta scelta la seconda possibilita' non puo' sottrarsi agli  effetti
che ne conseguono a causa  della  «struttura  e  della  funzione  del
giudizio penale, cui la stessa  azione  civile  deve  necessariamente
adattarsi» (come avviene in materia di impugnazione dei provvedimenti
anche cautelali del giudice penale). Al tempo  stesso,  tuttavia,  la
persona danneggiata non puo' vedere  pregiudicati  i  propri  diritti
civilistici relativi alla domanda risarcitoria  da  esigenze  diverse
dall'applicazione delle regole processuali concernenti la  formazione
della prova  e  i  diritti  dell'imputato  nel  processo  penale.  In
particolare, la persona  danneggiata  non  puo'  essere  pregiudicata
dalla semplice eventualita' che l'imputato - all'esito  del  processo
penale - risulti affetto o meno da un  vizio  parziale  o  totale  di
mente al momento del fatto. In questa prospettiva l'art.  538  c.p.p.
che impedisce al giudice di pronunciarsi sulla  domanda  risarcitoria
in caso di assoluzione per non imputabilita' ex art.  88  c.p.  viola
innanzitutto il principio di eguaglianza previsto dall'art.  3  della
Costituzione  perche'  l'aspettativa  risarcitoria  non  puo'  essere
disattesa o ritardata a seconda dell'imputabilita' o meno dell'autore
del fatto, dovendo trovare l'opportuna regolazione  nella  disciplina
civilistica cui rinvia l'art. 185 c.p.; 
        2)  mancando  una  giustificazione  ragionevole  al   diverso
trattamento che subirebbe il danneggiato costituitosi parte civile in
un procedimento penale conclusosi con l'assoluzione dell'imputato per
infermita' totale di mente rispetto al  danneggiato  la  cui  domanda
risarcitoria sia stata  invece  esaminata  all'esito  della  condanna
dell'imputato sano di mente, e' inevitabile ritenere che  l'art.  538
c.p.p. violi il pieno esercizio del diritto di difesa del danneggiato
costituitosi parte civile  (art.  24  Cost.).  Tale  lesione  non  e'
affatto  evitata  dalla  concreta   possibilita'   che   la   domanda
risarcitoria possa essere successivamente azionata  in  sede  civile.
L'art. 538 c.p.p. impone al danneggiato dal  reato  commesso  da  una
persona totalmente incapace di intendere e  di  volere  -  e  percio'
assolta dal fatto contestatogli - di  agire  nuovamente  in  giudizio
vanificando completamente l'opzione  liberamente  scelta  al  momento
dell'esercizio  dell'azione  penale  del   pubblico   ministero.   Va
ricordato  come,  nel  caso  concreto,  non  era  affatto  comprovata
l'infermita' di mente del C. la  parte  civile  non  poteva  pertanto
prevedere che l'anomalia nella condotta dell'imputato  sarebbe  stata
catalogata come vizio totale  di  mente.  In  questa  prospettiva  la
persona  danneggiata  vede  negato   il   suo   diritto   inviolabile
all'esercizio di  un'appropriata  difesa  che  puo',  invece,  essere
pienamente soddisfatto dal giudice  penale.  Non  si  tratta  di  una
lesione attinente la durata (ovvero il  prolungarsi  del  tempo)  del
processo: qui e' in questione il diritto della persona danneggiata ad
agire in  giudizio  senza  pregiudizi  patrimoniali  e  morali  quale
inevitabile  conseguenza  della  moltiplicazione  dei  riti  per   il
conseguimento della  propria  tutela  risarcitoria.  Il  pregiudizio,
infatti, coinvolge anche la sfera morale della  vittima  costretta  a
rievocare, anche a distanza di tempo, davanti  a  giudici  diversi  i
fatti posti a base dell'azione penale  e  della  contestuale  domanda
civile; 
        3) cio' non significa che - anche in questo caso - la  durata
non costituisca un bene costituzionale apertamente leso dall'art. 538
c.p.p. cosi' come attualmente strutturato. Osservano i giudici  della
Consulta (Sentenza della Corte costituzionale n. 24/2004)  come  alla
«effettivita'   dell'esercizio   della   giurisdizione    non    sono
indifferenti  i  tempi  del   processo.   Ancor   prima   che   fosse
espressamente  sancito  in  Costituzione  il  principio   della   sua
ragionevole durata (art. 111,  secondo  comma),  questa  Corte  aveva
ritenuto che una  stasi  del  processo  per  un  tempo  indefinito  e
indeterminabile vulnerasse il diritto di azione e di difesa (sentenza
n. 354 del 1996) e  che  la  possibilita'  di  reiterate  sospensioni
ledesse il bene costituzionale dell'efficienza del processo (sentenza
n. 353 del 1996)». Benche' in questo caso non si corra il rischio  di
una esasperata  protezione  di  alte  cariche  dello  Stato  mediante
«stasi» e «sospensioni» del processo, e'  tuttavia  evidente  che  il
trasferimento indebito dell'azione civile  da  una  giurisdizione  ad
un'altra  proietta  in  un  tempo  certamente  lontano  la  pronuncia
definitiva sulla domanda risarcitoria che  contrasta  con  la  giusta
aspirazione  ad  ottenere   una   risposta   giudiziaria   in   tempi
ragionevoli. Non si tratta di  tutelare  un  astratto  interesse  del
danneggiato ad ottenere giustizia in tempi brevi. Il principio  della
durata ragionevole del  processo  va  ormai  inteso  non  solo  nella
prospettiva di un buon  governo  della  funzione  giurisdizionale  ma
soprattutto in quella di un servizio pubblico capace di soddisfare le
istanze di efficienza provenienti  dagli  utenti  di  quel  servizio,
siano essi imputati o danneggiati. Si va  consolidando  da  tempo  in
Europa una concezione della ragionevole durata del processo capace di
promuovere una valutazione della ragionevolezza riferita non gia'  al
singolo processo ma in base a criteri di proporzionalita' che tengano
conto della intrinseca  limitatezza  della  risorsa  «giustizia».  In
questa prospettiva l'assoluzione del C. per  vizio  totale  di  mente
comporta, per  le  aspirazioni  del  danneggiato  costituitosi  parte
civile,  l'instaurazione  di   un   altro   procedimento   in   altra
giurisdizione con la necessaria mobilitazione di altre risorse per un
tempo non definito e la ripetizione di un'attivita'  istruttoria  non
semplice  senza   che   tale   duplicazione   trovi   giustificazione
nell'eventuale specializzazione del nuovo giudice o  nell'inidoneita'
del giudice penale  di  statuire  sulle  domande  civili.  La  regola
attuale  dell'art.  538  c.p.p.  contrasta  con  l'applicazione   del
principio  di   proporzionalita'   come   criterio   di   valutazione
dell'impiego di una risorsa  per  il  conseguimento  di  un  processo
efficiente, cioe' per il raggiungimento di un punto di equilibrio tra
la protezione degli interessi  individuali  coinvolti  nella  singola
vicenda processuale e la protezione degli interessi  collettivi  alla
gestione razionale dell'insieme dei processi. In  questa  prospettiva
non puo' non essere citata Cassazione SS.UU. civili 15 novembre  2007
n. 23726 secondo cui e' contraria alla regola generale di correttezza
e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarieta'  di
cui all'art. 2 Cost., e si risolve in abuso  del  processo  (ostativo
all'esame della domanda), il frazionamento giudiziale (contestuale  o
sequenziale) di un credito unitario. Un passo di questa  sentenza  si
correla immediatamente alle considerazioni sopra esposte:  «l'effetto
inflattivo   riconducibile   ad   una   siffatta   (ove   consentita)
moltiplicazione di giudizi ne evoca ancora un altro  aspetto  di  non
adeguatezza rispetto all'obiettivo, costituzionalizzato nello  stesso
art. 111, della  ragionevole  durata  del  processo,  per  l'evidente
antinomia che  esiste  tra  la  moltiplicazione  dei  processi  e  la
possibilita' di contenimento della relativa durata». 
    Non va dimenticato come il principio della ragionevole durata del
processo sia applicato espressamente a tutela delle vittime di  reato
dall'art. 16 della Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e  del
consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in  materia
di diritti, assistenza e protezione delle  vittime  di  reato  e  che
sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI 16: «1. Gli Stati membri
garantiscono alla vittima il diritto di  ottenere  una  decisione  in
merito al risarcimento da parte dell'autore del reato nell'ambito del
procedimento penale entro  un  ragionevole  lasso  di  tempo,  tranne
qualora il diritto nazionale preveda che tale decisione sia  adottata
nell'ambito di un altro procedimento giudiziario». 
    La questione di legittimita' costituzionale oltre  a  non  essere
manifestamente  infondata   per   le   ragioni   sopra   esposta   e'
indubitabilmente rilevante per la decisione del caso concreto. 
    Se la Corte costituzionale  ritenesse  fondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale cosi' come esposta da  questo  giudicante
il C. - una volta accertata  la  riferibilita'  dei  fatti  alla  sua
condotta ancorche' affetta  da  vizio  totale  di  mente  -  verrebbe
condannato al pagamento di una equa indennita' a favore  della  parte
civile. All'epoca dei fatti il C.  non  si  trovava  sottoposto  alla
custodia  o  alla  sorveglianza  di  alcun  soggetto,  individuale  o
istituzionale, cosi' che la parte civile non avrebbe potuto utilmente
chiedere la citazione a giudizio dell'eventuale  responsabile  civile
ex art. 2047 c.c. 
    Questo giudicante chiede pertanto alla  Corte  costituzionale  di
valutare  se  non  sia  manifestamente  infondata  la  questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 538 c.p.p. nella parte  in  cui
non prevede che il  giudice  possa  decidere  sulla  domanda  per  le
restituzioni e il risarcimento del  danno,  proposta  a  norma  degli
artt.  74  e  ss.  c.p.p.  anche   quando   pronuncia   l'assoluzione
dell'imputato in quanto non imputabile per essere, nel momento in cui
ha commesso il fatto, per infermita',  in  tale  stato  di  mente  da
escludere la capacita' di intendere e di volere.